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I vetri del Museo

ACCENNI SULLA STORIA DEL VETRO

ACCENNI SULLA STORIA DEL VETRO
Si pensa che il vetro fu scoperto in maniera casuale sulle coste della Fenicia,
probabilmente come esito di una serie di esperimenti avvenuti nelle regioni della
Mesopotamia tra il XXIII e il XXI secolo a.C.. Questa testimonianza è giunta sino a noi
grazie a Plinio il Vecchio, scrittore e filosofo naturalista, il quale nella sua opera
enciclopedica “Naturalis Historia” racconta la nascita di questo prezioso materiale:

“[…] quella parte della Siria che si chiama Fenicia e che confina con la Giudea include
nel monte Carmelo una palude che si chiama Candebia. Si crede che da là nasca il fiume
Belo, che dopo aver percorso cinque miglia sfocia nel mare, nei pressi della colonia di
Tolemaide. Il suo corso è lento, le sue acque non sono buone a bere e tuttavia sono usate
nelle cerimonie sacre; il suo letto è limoso, profondo e riversa nel mare le sue sabbie solo
con la bassa marea.
Perciò queste brillano, finché non sono agitate dalle onde e ripulite così dall’impurità;
inoltre, esse furono utilizzate solo nel momento in cui si pensò che avessero proprietà
aspre e astringenti, tipiche dell’acqua salmastra. Proprio in un così piccolo litorale, non
più largo di cinquecento passi, molti secoli fa ebbe origine il vetro. Si narra che una nave
di mercanti di natron sia lì approdata; i mercanti, riversatisi sulla spiaggia,
cominciarono a preparare le cibarie, ma non essendovi una pietra adatta a sostenere il
focolare, posero sotto i calderoni dei blocchi di soda (natron) che avevano preso dal loro
carico, ma quando li accesero dopo che essi si furono impastati con la sabbia, un rivo di
nuovo, trasparente liquido cominciò a fluire: questa fu l’origine del vetro” (NH,
XXXVI,190-191).

Il vetro naturale più comune è l’ossidiana che i romani conoscevano bene. Sempre Plinio
il Vecchio descrive la sua origine, evidenziando come questa si formi durante i fenomeni
vulcanici a causa del rapido raffreddamento della lava.
In Egitto, il vetro veniva chiamato con il termine “iner en wedeh” oppure “aat wedeth”
che tradotto vuol dire “pietre del tipo che scorre”.

Possiamo ricavare testimonianze archeologiche ancora più antiche dalla Mesopotamia,
nell’odierna Tell Asmar (antica Eshnunna), dove è stata rinvenuta una barra di vetro blu
probabilmente appartenuta al periodo sargonide (XXIII sec. a.C.).
Il vetro era inizialmente impiegato soprattutto su monili o intarsi come imitazione di
pietre più preziose che ornavano le statue o gli oggetti, ma i primi vasi di vetro compaiono
intorno al XVI secolo a.C. nelle aree della Mesopotamia, Siria, Egitto, Cipro e Palestina.
In Egitto, all’interno della tomba del faraone Tutmosi III, sono stati rinvenuti dei vasi in
vetro di piccole dimensioni, realizzati probabilmente da vetrai siriani che lo stesso faraone
condusse con sé in Egitto dopo le campagne militari del 1467 e 1445 a.C. in Siria. Questi
vetrai siriani posero molto probabilmente le basi per la creazione di un artigianato locale
del vetro anche in Egitto.
Sono state inoltre rinvenute a Babilonia, nella biblioteca del Palazzo di Ninive (668-627
a.C.), e nell’odierna Turchia alcune tavolette con l’incisione del procedimento di
lavorazione del vetro, ad iniziare dalla sua forma originaria.
Nelle produzioni del vetro da parte di elleni e romani, la sabbia fungeva da ingrediente
primario e dai testi pervenutici da Plinio e Tacito, la stessa veniva raccolta dal fiume Belo,
sulla costa fenicia.
Durante la cottura, per diminuire la temperatura di fusione, si aggiungevano degli alcali
di origine minerale o vegetale (soda e potassa), procedimento impiegato ancora oggi.
Per colorare il vetro si aggiungevano nell’impasto ossidi di ferro, manganese, cobalto e
rame.
La colorazione verdastra del vetro era dovuta agli ossidi di ferro già presenti nella sabbia.
Infatti, il termine “vetro” è dato proprio dal colore verde che acquisivano i primi vetri in
cottura grazie a questi ossidi di ferro.
Per ottenere il vetro trasparente o quasi, si doveva attenuare il colore aggiungendo
nell’impasto ossido di manganese, considerato il “sapone dei vetrai”.
Il colore blu invece era ottenuto attraverso l’aggiunta di
cobalto o rame. Il rosso invece, dall’aggiunta di piombo.
Quest’ultimo era utilizzato anche per rendere più malleabile
il vetro bianco (cammeo), che ebbe grande sviluppo nel
periodo romano (fig. 1).
Le tecniche maggiormente utilizzate nel primo periodo di
lavorazione del vetro erano la fusione entro stampo, l’intaglio
a freddo e l’avvolgimento su anima.

Figura 1 Cammeo Tolomeo II |

 

IL VETRO SOFFIATO

Un’altra tecnica, nata probabilmente in area siro-palestinese intorno alla metà del I secolo
a. C., è quella della soffiatura del vetro. Con questa tecnica i vetri vennero prodotti su
scala molto più ampia poiché, grazie alla maggiore facilità del processo, le tempistiche di
produzione venivano dimezzate.
Inoltre, ci fu un crollo dei prezzi sul mercato e questo fece si che il vetro si diffondesse
presso tutti i ceti sociali. Ciò non escluse la produzione di pezzi più elaborati e di
maggiore qualità destinati a un certo tipo di committenza.
I vetrai, durante il I sec. d.C., emigrarono dall’Oriente e si spostarono in centri occidentali
molto importanti come l’Italia e altre regioni dell’Impero. Questo avvenne perché in
queste aree i vetrai potevano commerciare i loro prodotti più facilmente. In Italia sono
stati rinvenuti dei recipienti in vetro soffiato all’interno di stampi appartenenti a una delle
vetrerie sidonie di Ennione (vetraio che riproduceva al di sopra dei suoi esemplari in vetro
alcune decorazioni in rilievo dei pregiati vasi metallici alessandrini).
Tra il II e il III sec. d.C., iniziarono ad affermarsi diverse officine provinciali di vetrai che
producevano nuove forme di contenitori, caratterizzati da una decorazione molto sfarzosa
e destinati a soddisfare un mercato sempre più in espansione.
Altre testimonianze iconografiche documentano, senza dubbio, le caratteristiche di una
tipica officina vetraria. Significativo è il ritrovamento, in territorio ferrarese, di una
lucerna a volute della seconda metà del I secolo d.C., importante per la sua particolare
decorazione (fig. 2). L’oggetto in esame è stato ottenuto da un impasto argilloso molto
chiaro tendente al nocciola, probabilmente depurato, che risulta privo di porosità o scorie.
Le pareti esterne erano ricoperte da una vernice bruna opaca di cui oggi non rimane
praticamente niente. La lucerna è stata lavorata accuratamente, anche se la decorazione
del disco sembrerebbe ricavata da una matrice piuttosto usurata. La decorazione del disco
è a rilievo e occupa tutto lo spazio circolare della lucerna; l’iconografia raffigura due
vetrai intenti a lavorare il vetro soffiato all’interno di un ambiente che, grazie alla fornace
raffigurata sullo sfondo, riconosciamo come un’officina vetraria.
A causa di alcune lacune della raffigurazione al di sopra del disco, ci si è basati su un’altra
lucerna (fig. 3), quella di Asseria in Dalmazia settentrionale (seconda metà del I secolo
d.C.), raffigurante anch’essa la stessa identica iconografia e conservata oggi al Museo
Archeologico di Spalato. Al centro dei dischi è raffigurato il forno di fusione e,
lateralmente ad esso, due vetrai immortalati in due fasi differenti della lavorazione del
vetro soffiato a canna libera.

Sul lato del forno (visibile anche sull’iconografia delle lucerne), vi era un piano chiamato
“marmo” che serviva d’appoggio per la modellatura del bolo vitreo incandescente appeso
alla canna da soffio. In seguito, il vetraio, seduto su uno sgabello, soffiava all’interno
della canna da soffio dando al vetro la forma primaria.
Ai piedi dei due artigiani si può notare un composto, identificato con la “fritta”, una
miscela che si otteneva dalla fusione delle materie prime e che, una volta fatta raffreddare,
veniva depurata dalle scorie e di seguito sminuzzata per poi riporla all’interno di crogioli
tramite i quali veniva nuovamente fusa.
Quando le forme degli oggetti erano concluse, veniva usata una “camera di ricottura” per
temprare il vetro (elemento indispensabile per qualsiasi officina vetraria). La camera di
ricottura era spesso costruita a ridosso del forno e all’interno avveniva il raffreddamento
graduale dell’oggetto in vetro.
Le iconografie raffigurate sulle lucerne rappresentano un grande contributo al sapere che
riguarda le tecniche della lavorazione del vetro nel mondo antico.

 

Figura 2 Lucerna dal territorio ferrarese |

Fig. 3

Figura 3 Lucerna da Asseria (Dalmazia)

I VETRI DEL MUSEO ARCHEOLOGICO DI VIDDALBA

I vetri conservati all’interno delle vetrine del Museo Archeologico di Viddalba sono in tutto dodici esemplari. Tre fanno parte di una collezione di età punica (III-II secolo a.C.) e i restanti nove, costituenti più che altro unguentari, sono di epoca romana imperiale. Analizzando i reperti, dai più antichi (quelli di III-II secolo a.C.), si possono ammirare nella vetrina dedicata proprio al periodo punico, alcune collanine in pasta vitrea di colore blu e celeste (fig. 4), ritrovate in località San Leonardo, poco distanti dalla necropoli romana.

Amuleti in bronzo con rifiniture di parti in vetro (fig. 5), costituiscono la sezione punica dedicata agli amuleti. Tali oggetti sono stati ritrovati in sezioni frammentate e sono poi stati riassociati grazie alle testimonianze archeologiche di quest’epoca.

Figura 4 MAV- Museo Archeologico Viddalba: collanine in pasta vitrea (foto di B. Russo)

Fig. 5

Figura 5 MAV- Museo Archeologico Viddalba: amuleto in bronzo e pasta vitrea (foto di B. Russo)

I vetri conservati all’interno delle vetrine del Museo Archeologico di Viddalba sono in tutto dodici esemplari. Tre fanno parte di una collezione di età punica (III-II secolo a.C.) e i restanti nove, costituenti più che altro unguentari, sono di epoca romana imperiale. Analizzando i reperti, dai più antichi (quelli di III-II secolo a.C.), si possono ammirare nella vetrina dedicata proprio al periodo punico, alcune collanine in pasta vitrea di colore blu e celeste (fig. 4), ritrovate in località San Leonardo, poco distanti dalla necropoli romana.

Amuleti in bronzo con rifiniture di parti in vetro (fig. 5), costituiscono la sezione punica dedicata agli amuleti. Tali oggetti sono stati ritrovati in sezioni frammentate e sono poi stati riassociati grazie alle testimonianze archeologiche di quest’epoca.

Figura 6 MAV- Museo Archeologico Viddalba: unguentari e balsamari di vetro (foto di B. Russo)

Una brocchetta molto particolare è quella rinvenuta all’interno di un corredo tombale di una tomba in cassa lignea del III-IV secolo d. C., in piena età imperiale, epoca in cui all’interno dei corredi si accorpavano oggetti appartenuti al defunto che si pensava potessero servire nell’aldilà. Si tratta di una brocchetta in vetro piriforme con ansa a nastro decorata a spirale (fig. 7).

La tecnica usata per questo tipo di forma è, probabilmente, la soffiatura entro stampo ed è proprio questo particolare ad indicarci che la produzione è, con molte probabilità, di origine orientale.

Figura 7 MAV- Museo Archeologico Viddalba: brocchetta in vetro piriforme (foto di B. Russo)

Le bottiglie della collezione dei vetri del Museo Archeologico di Viddalba sono chiamate hydriae, dal termine latino che suggerisce appunto l’utilizzo di questa tipologia di oggetto per versare liquidi. Generalmente si dividono in due gruppi: quelle con corpo “quadrangolare” (probabilmente soffiate entro stampo aperto o appiattite in un secondo momento su superficie piana); e quelle con corpo globulare o sferico. Queste ultime solitamente erano utilizzate per contenere i vini e si datano intorno al IV secolo d.C..

A Viddalba si trova un unico esemplare, esposto in vetrina, di bottiglia con corpo sferico e collo strozzato alla base (fig. 8); l’orlo è tagliato e rifinito, mentre il fondo è appena rientrante. Il colore del vetro è tendente al verde e sul corpo dell’oggetto non sono visibili decorazioni.

Figura 8 MAV- Museo Archeologico Viddalba: bottiglia con corpo sferico (foto di B. Russo)

Le bottiglie della collezione dei vetri del Museo Archeologico di Viddalba sono chiamate hydriae, dal termine latino che suggerisce appunto l’utilizzo di questa tipologia di oggetto per versare liquidi. Generalmente si dividono in due gruppi: quelle con corpo “quadrangolare” (probabilmente soffiate entro stampo aperto o appiattite in un secondo momento su superficie piana); e quelle con corpo globulare o sferico. Queste ultime solitamente erano utilizzate per contenere i vini e si datano intorno al IV secolo d.C..

A Viddalba si trova un unico esemplare, esposto in vetrina, di bottiglia con corpo sferico e collo strozzato alla base (fig. 8); l’orlo è tagliato e rifinito, mentre il fondo è appena rientrante. Il colore del vetro è tendente al verde e sul corpo dell’oggetto non sono visibili decorazioni.

Figura 9 MAV- Museo Archeologico Viddalba: bicchiere (foto di B. Russo)

Conclusioni

Il vetro, dunque, è un materiale conosciuto e utilizzato già dall’antichità. Le prime forme di vetro utilizzato sono appunto i composti che si trovano in natura come, ad esempio, l’ossidiana e il cuore di piccole meteoriti cadute sulla superficie terrestre. I nuclei di ossidiana, vetro naturale, venivano lavorati dagli uomini per la costruzione di utensili necessari per cacciare o intagliare le pelli.

In un secondo momento, il vetro fu scoperto sulle coste della Fenicia grazie ad esperimenti casuali che videro come protagonisti le sabbie costiere ricche di silicio e il fuoco, strumento indispensabile per la fusione del composto del vetro.
Grazie alla sapienza di artigiani provenienti dall’Oriente, la conoscenza del vetro si espanse per tutto il Mediterraneo e non solo, con la conseguente fabbricazione e realizzazione del materiale in grande scala. Le tecniche furono numerosissime e a seguito di diverse migliorie il vetro fu prodotto con lo scopo di essere alla portata di tutti.

Una delle tecniche più importanti è quella della soffiatura utilizzata ancora oggi da moltissimi artigiani vetrai. Le testimonianze sul vetro sono molteplici, ad iniziare dai ritrovamenti archeologici in aree della Mesopotamia. Inoltre, in Egitto, vennero ritrovati alcuni vasi di piccole dimensioni realizzati da artigiani siriani che erano stati portati in Egitto dallo stesso faraone durante una delle sue campagne militari.

Nella biblioteca della città di Ninive, invece, sono state rinvenute, durante gli scavi archeologici, numerose tavolette incise che riportavano il processo di lavorazione del vetro, segno questo della diffusione della tecnica vetraria. Testimonianze iconografiche sono anche quelle improntate su alcune lucerne che rappresentano due artigiani intenti a lavorare i nuclei di vetro incandescente mediante la tecnica della soffiatura.

All’interno del Museo archeologico di Viddalba sono esposti numerosi altri ritrovamenti del territorio, tra cui: punte di freccia e nuclei di ossidiana del periodo Neolitico, collanine in pasta vitrea e amuleti di epoca punica, corredi tombali e oggetti in vetro di epoca romana. Grazie a questi reperti, il Museo offre la possibilità di conoscere e raccontare la loro storia e il loro viaggio che li ha portati fino a noi.

Bibliografia: 

LISSIA 2000

D. Lissia, La collezione dei vetri romani del museo “G.A. Sanna” di Sassari, a cura di F. Lo Schiavo e Giovanni Maria Demartis, 2000.

STIAFFINI, BORGHETTI 1994

D. Lissia, La collezione dei vetri romani del museo “G.A. Sanna” di Sassari, a cura di F. Lo Schiavo e Giovanni Maria Demartis, 2000.

MAZZOLDI 2010

P. Mazzoldi, Fisica e… Dalla leggenda dei materiali alla magia del vetro, in Il Nuovo Saggiatore, vol. 26, 2010, pp. 47-6

KLEIN, LLOYD

D. Klein, W. Lloyd 1984, “Storia del Vetro”, in Istituto Geografico De Agostini, 1984.

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