Le stele “a specchio” di Viddalba: la stele di Tertius
L’oggetto in esame fa parte di un gruppo molto più vasto di stele funebri rinvenute
in alcuni paesi della Sardegna nord-occidentale e nelle località limitrofe all’odierno
paese di Viddalba. Si ipotizza che il centro di produzione delle stele sia stato proprio
Viddalba, dati i numerosi esemplari ritrovati nella necropoli romana della località di
S. Leonardo, a poca distanza dal centro moderno. L’area funeraria di questo centro
non si limitava solamente alla località di S. Leonardo, ma si estendeva anche nelle
località di S. Benedetto, S. Maria Maddalena e S. Michele, ubicate in territorio
viddalbese. In molte di queste aree era praticata la produzione latifondistica, basata
sulla monocoltura cerealicola e l’allevamento del bestiame. Probabilmente, è proprio
in questi luoghi che nacque un piccolo artigianato delle stele organizzato e gestito da
genti locali: botteghe a conduzione familiare lavoravano l’arenaria locale e
producevano quantità limitate di manufatti destinati al mercato interno o al massimo
zonale. La necropoli rinvenuta nella località di S. Leonardo è una necropoli a rito
misto: infatti coesistono all’interno della stessa area riti a inumazione e riti ad
incinerazione. Il periodo in cui questa necropoli è stata utilizzata è molto ampio e si
colloca tra l’età repubblicana (III sec. a.C.) e la tarda età imperiale (IV-V sec. d.C.).
Le stele rinvenute sono realizzate in pietra arenaria o calcarea, materiale facilmente
reperibile nelle zone presso il corso del fiume Coghinas. Si può ipotizzare che queste
stele venissero anche esportate nei territori circostanti; infatti, nella località di S.
Maria Maddalena, presso le rive del fiume Coghinas, sorgeva un piccolo scalo
commerciale predisposto in epoca romana e utilizzato, probabilmente, anche per
questo fine.
I primi ritrovamenti nell’area di S. Leonardo risalgono agli anni ‘50 del secolo scorso
quando, durante la costruzione di un campetto sportivo, nell’area adiacente alla
chiesetta campestre dedicata al medesimo Santo, vennero alla luce alcune stele
figurate, dette poi “a specchio”. Il termine deriva dal tipo di immagine che veniva
scolpita sulla stele: si rappresentava il defunto, in maniera stilizzata, a forma di
specchio.
Gli scavi archeologici vennero seguiti in primo luogo da Guglielmo Maetzke, il quale
procedette poi nel 1959 con un’esplorazione sistematica dell’area. Egli si rese conto
che molte delle stele furono distrutte durante i lavori di sterro dell’area e anche
numerosi corredi funebri andarono perduti.
Gli scavi Maetzke nella località di S. Leonardo posero le basi per uno studio più
approfondito e mirato sulle stele, ripreso in anni più recenti da Sabatino Moscati,
Attilio Mastino, Giuseppe Pitzalis e molti altri, ancora oggi in fase di continuo
aggiornamento.
S. Moscati intraprese, nel 1992, in collaborazione con la Soprintendenza
Archeologica di Sassari e altri ricercatori, uno studio sulle stele del Sassarese.
Insieme presero in considerazione, inizialmente, tutte le stele della Sardegna
settentrionale, ma ne isolarono un gruppo che pareva autonomo e diverso dalle altre
per iconografia.
I gruppi di stele rinvenuti fino ad oggi a Viddalba sono principalmente due: il primo
risale all’epoca dei ritrovamenti di G. Maetzke (1958-59), ed è stato catalogato dalla
studiosa M. L. Uberti; alcuni di questi esemplari sono esposti al Museo G. Sanna di
Sassari. Il secondo gruppo si associa invece al nome di G. Pitzalis, il quale effettuò
nuove operazioni di scavo durante gli anni 1984-85. Si tratta di un raggruppamento
molto più vasto del primo, catalogato ed esposto al Museo Archeologico di Viddalba,
in quegli anni in fase di allestimento.
Le stele sono divenute con gli anni il pezzo più importante e il simbolo del Museo,
grazie anche alla particolarità di alcune di esse.
La maggior parte sono semplici lastre che raffigurano, attraverso la tecnica del
bassorilievo, il defunto, in maniera molto schematizzata e stilizzata, racchiuso in
un’edicola. L’edicola è quasi sempre quadrangolare e nei bordi che la evidenziano
viene raffigurato un motivo vegetale foliato come decorazione; il motivo consiste in
una stilizzazione di un ramo di palma con piccole foglie laterali rivolte verso l’alto.
In minor numero sono state invece rinvenute alcune stele che si definiscono “con
falsa edicola” o “prive di edicola”: ciò consisterebbe in un’escavazione attorno al
soggetto o al motivo rappresentato.
L’iconografia delle stele rinvenute, oltre a rappresentare il viso del defunto, in alcuni
casi raffigurava un oggetto a lui caro come, ad esempio, un utensile del suo lavoro o
un oggetto di vita quotidiano che lo ricordasse.
A Viddalba sono state rinvenute sei stele con iscrizione nella necropoli di S.
Leonardo. Queste sono prive dell’invocazione agli Dèi Mani e, secondo lo studioso
A. Mastino, devono essere datate al I secolo d.C.
L’onomastica attestata conserva traccia sia della componente indigena, sia della
componente romana, arrivata nell’isola intorno al III sec. a.C.
La stele oggetto di questo breve resoconto è la “stele di Tertius” (fig. 1-2), rivenuta
divisa in due frammenti negli scavi del 1984-85 nella necropoli romana di S.
Leonardo, a Viddalba; è datata tra l’età repubblicana (III sec. a.C.) e la tarda età
imperiale (IV-V sec. d.C.). Diverse sono le scheggiature nei bordi della stele, e sulla
superficie, nel materiale che la costituisce, si notano frammenti di ossido di ferro e
chiodi.
Il nome ripreso nel campo epigrafico è Tertius, un nome di origine latina; si pensa
che questo nome sia la traduzione dell’aggettivo punico Siliso (terzo). Coloro che
scelsero la stele come segnacolo funebre probabilmente non erano Romani o Italici,
ma indigeni divenuti “cittadini romani” che avevano il desiderio di manifestare la
loro volontà di esprimersi con nuovi modelli culturali. Era quindi una società che si
stava evolvendo, che sentiva la necessità di apprendere ma anche di fare proprie
alcune caratteristiche che emersero attraverso le influenze esterne.
L’epigrafe (vedi figg. 1-2) si sviluppa su due righe: nella prima vi è inciso il nome
Tertius e [an]nos ben visibili, mentre nella seconda è riportato il numero romano
XXXV preceduto da un segno che sembra possa raffigurare una v, molto
probabilmente di ṿ(ixit). Il numero riportato indicava gli anni del defunto. Tra il
nome Tertius e [an]nos sembrerebbe esserci un’altra incisione che potrebbe
corrispondere al patronimico, ossia il nome o il cognome derivato da quello del
padre; purtroppo è proprio in questo punto del campo epigrafico che la stele si è
spezzata e ciò rende molto difficile la decifratura completa dell’iscrizione. Alcuni
ipotizzano che le lettere appena visibili siano AM che abbrevierebbero il nome
Amu[lii] o Amu[dii]: quindi la stele potrebbe essere appartenuta a un uomo, come
cita la stele stessa: “Tertius figlio di Amulio che visse trentacinque anni”.
La facciata anteriore della stele, nella quale si apre la decorazione, è stata
accuratamente lavorata.
La decorazione è molto semplice: l’edicola, in cui è scolpita la raffigurazione, è
inquadrata da bordi con motivo fitoforme inciso (di solito foglie di palma).
All’interno, partendo dalla base del campo figurativo, si erge una figura a rilievo
rappresentante un uomo stilizzato a forma di “specchio”: la testa è a forma di cerchio
mentre il collo è di forma trapezoidale. Alla base del collo sembra esserci una parte
ristretta destinata a un piccolo campo epigrafico mai sfruttato (c.d. “tabula
epigraphica”). Per quanto riguarda i particolari di occhi, bocca, orecchie e
capigliatura, il tutto è stato inciso nella pietra mentre il naso è a rilievo ed ha forma
trapezoidale.
Nei territori limitrofi a quello di Viddalba nel corso degli anni sono state rinvenute
altre stele che hanno riscontri con quelle dell’artigianato locale viddalbese: infatti si
somigliano molto per forma e iconografia.
Il gruppo più consistente rinvenuto fino ad oggi è quello di Viddalba, che ammonta
a circa ottanta esemplari, ma sono molto importanti anche le stele rinvenute a
Valledoria (otto), Castelsardo (quattro più un frammento di una quinta stele),
Codaruina (tre), Tergu (tre), Sorso (due), Sennori (una). A Ossi invece ne sono state
ritrovate una decina. Rispetto al gruppo di stele di Viddalba e dintorni, la lavorazione
di quelle di Ossi è molto più rozza: le figure sono incise in maniera leggera e meno
elaborata, sempre raffigurate con la tipica forma dello specchio. Il materiale utilizzato
per la creazione di queste ultime stele non si alterna più tra la pietra calcare e arenaria
ma viene utilizzata solamente la pietra calcarea. Tra gli strumenti che venivano
utilizzati per incidere la pietra vi erano probabilmente raschiatoi, martelli, punteruoli,
scalpelli e lisciatoi, ma non il compasso; quest’ultimo strumento veniva utilizzato
però a Viddalba per segnare con precisione i cerchi che componevano la testa delle
figure poi incise sulle stele.
Una novità delle stele di Ossi è la rappresentazione, in alcuni casi, degli arti superiori
del defunto, cosa che nelle stele di Viddalba e dintorni non avviene: gli arti, ancora
schematizzati, corrisponderebbero a piccole linee terminanti con l’incisione delle dita
aperte delle mani. Nei pochi esemplari rinvenuti ad Ossi, le braccia sono
rappresentate aperte lateralmente, o appena arcuate verso l’interno (fig. 4). In alcune
stele, oltre alle braccia, vengono riportati oggetti di lavoro come, ad esempio, un
oggetto interpretato come “falcetto” che si sovrappone alla guancia destra del defunto
(fig. 5), quest’ultimo, ancora una volta, rappresentato in forma di specchio.
Tra il 1952 e il 1954 vennero scoperte da Ercole Contu, presso il Lazzaretto (ad
Alghero), alcune stele figurate datate, grazie anche ai resti ceramici del luogo,
all’VIII a.C., le quali non vengono menzionate dal Maetzke nei suoi articoli.
L’esclusione di queste stele avviene poiché, oltre ad essere molto lontane come
datazione, non corrisponderebbero ai canoni delle stele definite “a specchio”,
associate appunto all’artigianato locale viddalbese.
Si può ritenere differente il caso di alcune stele provenienti dal territorio algherese,
rinvenute nella zona di Sant’Imbenia, vicino al villaggio nuragico omonimo. Queste
utilizzate in un primo momento come segnacolo delle sepolture, vennero reimpiegate
in età romana imperiale nella copertura di alcune tombe. Oggi due di queste sono
esposte al Museo Archeologico di Alghero: quella che più ci colpisce è una stele che
riprende i canoni delle stele a specchio rinvenute nel territorio di Viddalba (fig. 3).
La stele è in arenaria e di forma rettangolare; raffigura il defunto in maniera
schematizzata: il corpo è rappresentato da un rettangolo verticale sormontato da un
ovale che costituisce la testa, mentre i dettagli del viso sono resi in maniera minimale
(incisioni semplici per naso e bocca e occhi caratterizzati solamente da due punti); il
tutto è racchiuso all’interno di un’edicola sormontata da cornice.
Infine, negli ultimi anni, sono stati rinvenuti manufatti simili anche nei territori
limitrofi ai paesi di Mores, Torralba e Florinas, segni evidenti delle persistenze
puniche nell’artigianato lapideo funerario di età romana.
Nel 2020, sull’altopiano di Su Sassu in territorio di Ozieri, è stata rinvenuta una stele
databile tra il I sec. a.C. e il I sec. d. C.. La stessa fu riutilizzata come materiale da
costruzione all’interno di un muretto a secco. La pietra utilizzata per la sua
realizzazione è la trachite e non l’arenaria o il calcare, impiegate per le altre stele
rinvenute nella Sardegna nord-occidentale. Ciò che ci permette di metterla in
relazione con le stele così dette a “specchio” è appunto la raffigurazione del defunto
(sempre in maniera molto semplice e schematica) a forma di “specchio” e l’edicola
con i bordi decorati da motivi vegetali.
In conclusione, la stele di Tertius, trattata in questo articolo, è parte di un gruppo di
stele molto più ampio che fa probabilmente parte di una tradizione che accorpa in sé
saperi di influenza sia punica che romana; questi saperi appresi si sono trasformati,
con il passare del tempo, in artigianato locale nell’area che noi oggi definiamo “del
Sassarese”.
La particolarità delle stele relative a quest’area risiede appunto nell’iconografia del
defunto, raffigurato in maniera stilizzata e a forma di specchio. Questa forma è una
caratteristica che predomina negli esemplari rinvenuti tra Viddalba, Ossi,
Castelsardo, Codaruina, Sennori, Sorso, Tergu e Valledoria. Lo stesso modello è però
inesistente nell’area del Sinis, dove sono state ugualmente rinvenute diverse stele
funebri.
Grazie al numero consistente di esemplari rinvenuti a Viddalba, si potrebbe azzardare
l’ipotesi che il piccolo centro potrebbe essere stato la zona di provenienza del
modello delle stele a specchio; di conseguenza si parlerebbe non solo di modelli della
“scuola del Sassarese” (riferendoci, più in generale, alle stele rinvenute nei territori
della provincia), ma nello specifico, alla “scuola di Viddalba”.
Si può certamente sostenere che l’argomento trattato sarà oggetto di nuovi e continui
approfondimenti, che permetteranno di comprendere al meglio le connessioni tra le
varie civiltà e le culture che hanno influenzato i modelli e l’iconografia delle stele
nelle diverse zone della Sardegna.
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